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Mapuche contro la distruzione della foresta: arresti e accuse di terrorismo

Con un’operazione “antiterrorismo” lo stato Cileno ha arrestato otto membri della causa mapuche

L’accusa è di voler organizzare la distruzione di cento mezzi delle imprese responsabili della distruzione della foresta.
Riportiamo qui una intervista realizzata ai microfoni di radioblackout, in cui Jorge Huenchullan, ospite recentemente in Valsusa come portavoce della Comunità Autonoma di Temucuicui riporta le ultime vicende della sua terra. Ora ricercato dalla polizia cilena, Jorge si è dato alla macchia dichiarando che non intende presentarsi di fronte al tribunale di stato. “Continuerò a resistere, lottando per la liberazione del nostro popolo”. Jorge à una delle due persone scampate alla prigione.

Distruzione della foresta e distruzione di macchine deforestatrici

Gli arresti, basati interamente su messaggi Whatsapp e Telegram, accusano le organizzazioni comunitarie CAM (Coordinadora Arauco Malleco) e la WAM (WeichanAukaMapu) di vari attacchi incendiari alle attrezzature delle imprese forestali e di trasporto che deforestano il territorio ancestrale Wallmapu. Gli attacchi, avvenuti nel corso dell’anno, sono stati rivendicati alternativamente dalle due organizzazioni, che si distinguono per tattiche e forme di lotta differenti. La distruzione dei mezzi d’opera delle grandi imprese forestali è uno degli strumenti che i Mapuche utilizzano da decenni. Attualmente era in corso un digiuno di protesta contro l’uso della legge antiterrorista per reprimere la lotta Mapuche: uno degli arrestati si trovava di fronte al carcere di Temuco proprio per sostenere i prigionieri in sciopero della fame.
Gli arrestati sono stati divisi e dispersi in distinte carceri lontano dal loro territorio.

Al popolo mapuche va ovviamente il nostro pensiero e la nostra solidarietà.

Trascriviamo a seguire un articolo tratto da “Nunatak, rivista di storie, culture, lotte della montagna” che raccoglie le parole di Jorge durante uno degli incontri pubblici ha tenuto l’ottobre scorso in giro per l’europa, tra cui uno presso l’associazione Clapìe (Cels, Exilles)

Cronache da Wallmapu
a cura della redazione di Nunatak

Quella che segue è la trascrizione di uno degli incontri che Jorge Huenchellan, werken (messaggero) della comunità mapuche di Temucuicui, Arauco, ha tenuto lo scorso mese d’ottobre in giro per l’Europa. Un’occasione che si è rivelata molto importante non solo per approfondire la conoscenza delle peculiarità storiche e culturali del popolo nativo che da sempre abita il Wallmapu, estesissimo territorio a cavallo tra Cile e Argentina di cui già abbiamo trattato in precedenti numeri della rivista, ma anche per avere preziosi aggiornamenti di prima mano dal cruento conflitto in corso.

Oggi vorrei raccontarvi che cosa vuol dire essere un mapuche e la situazione che stiamo vivendo. Il nostro presente ha radici nella nostra storia millenaria, fatta da più di cinquecento anni di lotte prima contro la Corona spagnola e poi contro lo Stato cileno. Abbiamo resistito per più di trecento anni alla guerra di invasione delle Americhe da parte degli occidentali, non ci siamo fatti dominare e abbiamo continuato sempre a resistere. Essere mapuche vuol dire resistere: l’essenza del nostro essere è fatta di resistenza e le due cose coincidono.
Nel 1680, dopo due secoli di guerra contro l’invasore, il nostro nemico ha dovuto accettare un trattato di pace, sedersi al tavolo con noi e stabilire degli accordi riguardo il territorio che rimaneva in mano Mapuche, che non riuscivano a conquistare. Nell’accordo di Tapihue del 1825 il parlamento cileno ancora convalidava i trattati storici in cui la Corona spagnola riconosceva la sovranità mapuche nei territori a sud del fiume Bìo-bìo. Questo significa che i Mapuche avevano una forza militare capace di difendere la propria terra ma che avevano anche grandi doti diplomatiche.
Nel 1810 nasce lo Stato del Cile, data fino alla quale i mapuche erano ancora indipendenti. Furono tali ancora fino al 1860, ufficialmente, poi però cominciò una cauta strategia di conquista del territorio, sia cercando di imporre la proprietà privata, sia diffondendo l’uso delle sostanze alcoliche, ed infine con l’occupazione militare.
Infatti fu grazie alla guerra che il Cile portò avanti contro Perù e Bolivia che l’esercito cileno, addestratosi durante questo conflitto, cominciò l’invasione militare dei territori mapuche, fase chiamata in Cile “pacificazione dell’Araucania” e in Argentina “guerra del deserto”, che fu sostanzialmente un’opera di genocidio contro il pueblo Mapuche.
L’invasione militare si accompagnò ad un altro tipo di penetrazione grazie alla costruzione delle prime linee di comunicazione, a partire da quelle ferroviarie, e alla chiamata che il governo cileno fece alla colonizzazione delle aree boschive del paese. Coloni provenienti da Germania, Francia, Inghilterra, Italia, Svizzera si installarono in vari punti del territorio da noi popolato per sfruttare commercialmente le risorse della foresta.
In questo contesto inizia la fase di “reducción” delle famiglie mapuche, cioè la costrizione della popolazione, ad oggi un milione e mezzo di persone, in piccolissime aree, di fatto delle riserve, che non superano i 200-250 mila ettari a fronte dei 10 milioni del 1825.

Sono significativi i passaggi che hanno visto lo Stato cileno come nostra controparte negli ultimi decenni: negli anni tra il 1960 e il 1970, con il governo Allende, venne iniziata una riforma agraria dove le terre furono confiscate ai grandi proprietari terrieri e ridistribuite ai campesinos, mapuche compresi, ma non vi fu il riconoscimento della specificità indigena, del pueblo-nacion mapuche.
Così, arrivata la giunta militare di Pinochet, le terre confiscate ritornarono ai grandi proprietari terrieri e i mapuche nelle riserve. Alla fine della dittatura il susseguirsi dei governi lasciò la situazione invariata, senza mai riconoscere la causa mapuche né i nostri diritti ancestrali a vivere nelle nostre terre, ad autogovernarci, a portare avanti la nostra cultura, la lingua, la ritualità, la medicina. Anzi, i governi successivi sono andati avanti con lo sfruttamento di nuove risorse nella foresta e hanno cominciato una persecuzione del pueblo Mapuche con carcere e paramilitari.
È il governo Frey, socialdemocratico, che comincia la costruzione di dighe nell’alto Bìo Bìo, con l’espulsione dal territorio di centinaia di famiglie. Successivamente fu il governo Lagos, socialista, che ampliò la legge antiterrorista ai mapuche, sia ai Lonkos che agli altri attivisti. Così i successivi e attuali governi Bachelet, intramezzati da quello conservatore di Piñera, di destra, cominciano le esecuzioni degli attivisti mapuche all’interno delle stesse comunità mapuche, con decine di fratelli incarcerati, con sequestri e interrogatori finanche di bambini, violenze di ogni genere senza nessuna possibilità di dialogo.
È così che negli anni ’90 iniziano gli scontri direttamente tra mapuche e coloni e grandi imprese forestali e agricole, cioè con i poteri economici responsabili dell’aggressione al territorio, alla natura e quindi all’esistenza dei mapuche stessi. Queste imprese fanno capo a grandi famiglie possidenti, come gli Angelini, di origine italiana, che controllano l’impresa forestale Arauco, e i Mate, che controllano la metà della Milinco.
È un periodo in cui esecuzioni e violenze si accompagnano con la criminalizzazione giudiziaria della lotta, con arresti e incarceramento dei militanti, violenze pubbliche contro i Mapuche in quanto tali, anche sulla pubblica via, e dall’altra parte, come è giusto, con la clandestinità delle persone colpite da misure giudiziarie. In questo periodo, gli anni ’90, si creano tre strutture differenti, ma miranti all’unico fine del riconoscimento e dell’autonomia dei mapuche: l’Admapu, di ispirazione di sinistra, il consiglio generale delle terre, cioè una forma di coordinamento delle varie comunità, e la coordinadora Arauco-Malleco, più radicale e mirante l’autodifesa delle comunità.

Fronte a ciò, il governo ha sempre cercato di portare i mapuche a un tavolo di trattativa dove venissero accolte tutte le richieste da parte dello Stato a cambio di qualche misura assistenzialista e di qualche bonifica dei terreni agricoli. Tali dialoghi non hanno mai avuto successo perché le nostre richieste partono da due punti essenziali: la restituzione delle terre e il riconoscimento dei mapuche. Noi lottiamo per il riconoscimento del pueblo-nacion Mapuche, per vivere liberi, autogovernarci, praticare le nostre forme ancestrali di giustizia. Questo diritto legittimo ci viene negato, solo ci viene concessa la possibilità di amministrazione locale. Fortunatamente però la nostra lotta è oggi capita e compresa da molte persone non Mapuche. Se prima essere Mapuche era un discredito sociale, si veniva discriminati, oggi molte sono le persone non Mapuche che appoggiano le nostre mobilitazioni nelle città.

Durante la lotta abbiamo imparato ad usare tutti gli strumenti a nostra disposizione contro lo Stato cileno

Uno dei nostri obiettivi oggi è praticare un autogoverno reale: nonostante il Cile abbia ratificato la dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni non l’ha poi messa in pratica.
In alcune comunità proviamo ad autogovernarci e ci sono anche delle persone con una preparazione giuridica che danno battaglia in questo campo, anche per il fatto che il pueblo mapuche ha un suo status derivante dalla sua storia di lotta: se lo Stato cileno riconoscesse i trattati antichi di cui parlavo prima, tutto sarebbe molto diverso.
Siccome non è così, continua la lotta di occupazione delle terre. Cosa vuol dire? Noi occupiamo delle terre su cui poi abbiamo un controllo effettivo, cioè nelle zone occupate dalle comunità mapuche c’è la proprietà comune dei terreni le cui risorse servono per le esigenze quotidiane della comunità e per portare avanti al lotta. Come detto ci sono varie forme di lotta, alcune più radicali, altre più politiche, altre più di forza. Quando entriamo in un terreno siamo preparati sotto tutti gli aspetti a sostenere questa occupazione, a livello politico, e ci sono persone politicamente preparate per rispondere alla situazione, quanto a livello di forza: nei terreni c’è un controllo effettivo quindi le imprese non entrano più, per uno, due o tre mesi ci sono scontri quotidiani per difendere la zona e per rendere pubblica e riconosciuta l’occupazione della terra. Qui troviamo le risorse come la legna che alimenteranno anche la nostra economia e non saranno più a disposizione delle imprese. L’occupazione non è transitoria o saltuaria ma a lungo termine, ed ha conseguenze forti, gravi, con tentativi delle forze di polizia di penetrare per assassinare le famiglie, per questo la difesa è affidata ai weichafen, i giovani che nella lotta hanno il compito di difendere le comunità.
Questo è il metodo comunemente usato per riprendere il nostro territorio e guadagnarci uno spazio di vita, ma ci sono comunità più radicali, che attuano una resistenza completa. Noi abbiamo il diritto a difendere il nostro territorio con tutti gli strumenti che riusciamo ad avere a disposizione. È un tema molto delicato, che suppone molte sofferenze e morti da entrambe le parti, e dove i gruppi di autodifesa hanno un ruolo importante, ma è così che abbiamo recuperato 2500 ettari controllati dalle imprese, non con il dialogo. Per noi tutto gira intorno alla terra, i nostri giochi, le nostre cerimonie, tutta la nostra cultura, la nostra sopravvivenza viene da lì, sia per il cibo che per le medicine, per questo la nostra lotta contro le imprese forestali, che estraggono legno e cellulosa distruggendo il bosco e la biodiversità, è così importante. Noi chiediamo tutto alla natura, il permesso a un fiume o a una montagna per essere attraversati, alla natura chiediamo la forza per proseguire: la lotta contro le forestali è la lotta per noi stessi.
Certo con le leggi sempre più restrittive oltre a morti ed esecuzioni ci sono stati molti arrestati, ma per noi il carcere non è che una conseguenza della nostra lotta, i cui obiettivi rimangono uguali e per questo continuiamo. Noi ci auguriamo che lo Stato prenda in considerazione la nostra domanda per un pueblo libero e autonomo, e lo ratifichi in un trattato. Noi non siamo riconosciuti nella costituzione cilena se non a livello folcklorico, ma noi siamo un pueblo libero e sovrano, e vogliamo avere buone relazioni con gli altri popoli. Vogliamo un trattato ma che avvantaggi entrambe le parti, non solo una. Recentemente lo Stato ha fatto un tavolo di dialogo col pueblo mapuche, ma non ha invitato rappresentanti mapuche. Ci sono solo dei sindaci, dei deputati ovviamente non mapuche, dei ministri e un vescovo. Così è stato storicamente e se ciò non cambia il conflitto crescerà.

Ci sono diverse figure ancestrali che da sempre hanno un ruolo importante nelle nostre comunità

Una figura è la machi, solitamente una donna, che è l’autorità spirituale e medica della comunità. La machi non viene eletta, non viene per discendenza, ma si forma in modo naturale. Non si nasce machi ma lo si diventa. Possono esserci venti bambine in una comunità e nessuna di loro può sapere se sarà machi, fino a che una di loro, e solo una, perché non si formano due machi nella stessa comunità, comincerà ad avere dei sogni, delle visioni, ad essere attratta dai sentieri della montagna, a raccogliere erbe, a trovare l’acqua e ad accrescere la sua spiritualità. Allora capirà di dover accettare questa dote, questo privilegio. Ciò avviene di solito verso i dieci anni, qualche volta otto. Nella mia comunità c’è una machi uomo, e a detta degli anziani, questo è successo solo un’altra volta. La machi ha un comportamento molto particolare, bisogna vederlo: se qualcuno ha partecipato qualche volta a una cerimonia di una machi può sapere che cos’è una machi, come si comporta. Non si può spiegare che cos’è, ti entra nel corpo e non se ne va, resta lì. Ricordo un caso di una persona che non voleva accettare di essere machi, perché era figlia di mapuche che non vivevano più nelle comunità, ma in città, non parlava mapudungun ma in una settimana infine imparò la lingua, che non è una lingua tra le più semplici, e imparò anche a fare le cerimonie. Così è e così è sempre stato, ovunque, è qualcosa che non si può spiegare ma si può solo vederne gli effetti sul comportamento della machi, che sono molto particolari.

A Malleco, il territorio dove vivo, si trova la comunità di Temucuicui che è organizzata in forma totalmente autonoma, come tutte le comunità che sono indipendenti le une dalle altre. Nelle comunità vivono dalle venti alle duecento famiglie di almeno cinque componenti ciascuna, ogni comunità fa riferimento ad un lonko, che è colui che esprime le decisioni, ed è tale per discendenza, secondo una linea millenaria dai nonni dei suoi nonni. Il lonko opera in stretto accordo con uno o più kimche, persone che hanno dote di saggezza e capacità a livello politico, e spesso sono persone anziane. Il werken è il messaggero, il portavoce della comunità, spesso in viaggio, infine c’è il toki che è colui che organizza i giovani combattenti ed è la persona di riferimento per l’autodifesa. Tutte queste sono figure ancestrali che da sempre ordinano la nostra società familiare. Le varie comunità sono totalmente autonome tra loro ma posso dare vita al trawun, un coordinamento tra venti-trenta comunità. L’assemblea dei lonkos del trawun elegge un rappresentante che si chiama wenen. In questa sede si prendono decisioni condivise su come portare avanti la lotta.
Come werken della mia comunità, vi ringrazio per aver ascoltato la storia della lotta di Wallmapu, del territorio mapuche. Grazie per la solidarietà.

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