L’estrazione di valore dal territorio, non solo quello naturale ma anche quello antropizzato, è sempre stata una delle facce dello sfruttamento, come quello sugli uomini o sugli animali. Laddove la produzione agricola è centrale, il valore della terra è determinato dalla produttività, e ovviamente dal suo possesso esclusivo, concentrato in poche mani. Il valore si moltiplica dove la terra diventa oggetto di estrazione petrolifera e mineraria. Stessa cosa dove sono previste grandi infrastrutture oppure nelle città, dove il valore di un terreno, o di un edificio su di esso costruito è dato dall’uso a cui è destinato.
Un terreno o una casa che oggi non valgono niente domani saranno una miniera d’oro riprogrammando la funzione che quel luogo deve avere nei meccanismi del commercio globale.
Mentre molte località diventano periferiche, altre diventano centrali se investite dal flusso di merci che si accompagna a una grande infrastruttura. Così nelle città, dove un quartiere “povero” può trasformarsi se al suo interno viene costruito un polo direttivo, o altro cavallo di Troia della cosiddetta “riqualificazione”. Improvvisamente i palazzi popolari, grazie alla vicinanza di edifici di lusso, attirano le attenzioni di speculatori grossi e piccoli che alzano i prezzi e cercano di ripulire il quartiere per attrarre inquilini più danarosi. E i “poveri” dove andranno? Altrove, non importa, a meno che non si oppongano a questa dinamica: in quel momento, come i loro omologhi “di valle” diventeranno un problema di cui si occuperanno polizia e tribunali, tutori dell’ordine costituito secondo cui chi ha, ha diritto di avere, e chi non ha può solo accettare lo stato di cose presenti.
Dalla Valle alla città un doppio filo lega la trasformazione del territorio: da una parte espropri, sfratti e sgomberi, dall’altra un patto di ferro tra giudici e procuratori, a garanzia di una ristretta classe di privilegiati.
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